Curare il trauma: la psicoterapia EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing)

… da’ voce alla sofferenza, il dolore che non parla imprigiona il cuore e lo fa schiantare

(W. Shakespeare, Macbeth)

… il dolore coperto è come un forno chiuso; brucia e riduce in cenere il cuore che imprigiona

(Shakespeare, Tito Andronico)

Puoi lasciarti indietro ciò che ti insegue ma non puoi lasciarti indietro ciò che corre dentro di te

(Proverbio africano)

La parola “trauma” (dal greco) significa ferita. Un trauma psicologico è una ferita emotiva che, come una lesione fisica, ha bisogno di un processo di guarigione per rimarginarsi. Il nostro corpo è in grado di arrivare alla cicatrizzazione di certe ferite in modo naturale; in altri casi è necessario un supporto affinché il nostro fisico possa riprendersi e riattivare anche i naturali processi di autoguarigione. Analogamente la nostra mente ha delle capacità riparative innate, che tuttavia a volte possono non bastare o possono rimanere bloccate di fronte a certi eventi che ci sconvolgono o mettono alla prova il nostro equilibrio in modo troppo forte.

Pensare ai traumi che possiamo aver vissuto genera un’eco molto diversa in ognuno di noi, sulla base della nostra storia personale: immagini, emozioni, sensazioni fisiche, scene coinvolgono la nostra mente e il nostro corpo con effetti più o meno potenti. Provando a pensare alla nostra vita, possiamo individuare eventi che hanno avuto un impatto forte, che hanno lasciato un segno indelebile in termini di sofferenza, paura, terrore. Per alcuni di noi questi eventi saranno Traumi con la “T” maiuscola, in cui è stato toccato profondamente il nostro senso di sicurezza fisica, l’integrità del nostro corpo (oppure abbiamo assistito a scene in cui era la sopravvivenza di qualcun altro a essere in pericolo). A questa tipologia di traumi appartengono le morti, gli abusi, i maltrattamenti pesanti.

Tuttavia anche i traumi con la “t” minuscola hanno un peso molto significativo nella costruzione della nostra identità, specie se si tratta di traumi ripetuti. In questo caso non è la nostra incolumità fisica ad essere in pericolo, bensì la nostra integrità emotiva, la nostra identità (ad esempio aver subito frequenti umiliazioni da parte di una figura genitoriale quando si era bambini, oppure essersi dovuti prendere cura, con un rovesciamento di ruoli genitore/figlio, di una madre fortemente depressa).

Quali tracce del trauma dentro di noi

L’aspetto più problematico del trauma è il fatto che spesso i suoi effetti si fanno sentire in modo molto vivo anche a lunga distanza. Se è vero che con il passare del tempo certe sofferenze si attenuano, certe ferite si rimarginano, è altrettanto vero che lo scorrere dei giorni, dei mesi e perfino degli anni, può a volte lasciare invariati (o quasi) certi traumi con le immagini, le emozioni, le sensazioni, le convinzioni su noi stessi e sul mondo che li hanno accompagnati in origine. È come avere una spina nel corpo che in certi momenti sta lì senza che ne avvertiamo la presenza e in altri momenti, quando urtiamo contro qualcosa, si fa sentire con l’acuto dolore di sempre.

Anche quando apparentemente non ne avvertiamo la presenza, comunque il nostro organismo sta facendo i conti con la presenza di un corpo estraneo, dando fondo così alle proprie energie. La nostra mente non di rado si difende dall’evento traumatico confinandolo in una parte di noi, isolata dal resto della nostra persona: tuttavia questo stato di cose non è a costo zero, tutt’altro… L’eredità del trauma può essere piuttosto gravosa: possiamo vivere un senso di profondo distacco da quello che ci circonda, dagli affetti anche più vicini, sentirci come in una sorta di anestesia emotiva o di congelamento/paralisi dei moti dell’animo. Altre volte possono nascere in noi convinzioni che si radicano profondamente e che si legano: alla perdita di un senso di sicurezza e di protezione dal pericolo che prima ci appartenevano quasi naturalmente (“Non mi sento più al sicuro”, “Ho sempre paura che possa accadermi qualcosa o che possa succedere qualcosa alle persone cui sono legato”); all’idea di una nostra responsabilità rispetto a quanto accaduto (“Quello che è accaduto è colpa mia”, “Non avrei dovuto…”, “Se solo avessi…”); all’impotenza e alla perdita del senso di controllo sulla nostra vita (“Mi sembra di non avere più un potere sulla mia vita”, “Mi sembra che tutto sfugga al mio controllo”). In altri casi siamo costretti a fare i conti con immagini intrusive (i “fotogrammi” peggiori della scena del trauma), incubi notturni, improvvise attivazioni del nostro corpo (il cuore batte all’impazzata, il respiro si fa affannoso, ogni muscolo si tende…) perché sovente è “il corpo che tiene il registro” (B.A. Van der Kolk): succede che le cose che non riusciamo a ricordare o che cerchiamo di allontanare dai nostri pensieri, vengano conservate nel nostro corpo e si manifestino attraverso di esso.

Quando un trauma apre un altro trauma

Di fronte ad un nuovo evento traumatico che ci coinvolge, è molto frequente che ci accada di sentire che si riattivano dentro di noi quelle emozioni, quelle sensazioni, quelle convinzioni su noi stessi e sul mondo generate da un trauma precedente, anche di natura molto diversa. I lutti presenti toccano i nodi non sciolti dei lutti passati; essere abbandonati dalla propria compagna fa eco con i vissuti di abbandono della separazione dei nostri genitori; essere aggrediti fisicamente da uno scippatore ci rimanda a quella sensazione di impotenza di quando le prendevamo violentemente da nostro padre, e così via. Sofferenze che avevamo un po’ sepolto dentro di noi si risvegliano e tornano a tormentarci.

Quale cura?

Il lavoro psicoterapeutico sul trauma è particolarmente delicato e complesso. 
Nel corso del tempo, attraverso il lavoro con i pazienti, ho potuto constatare come la psicoterapia psicodinamica possa essere proficuamente integrata con l’approccio psicoterapeutico EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing: Desensibilizzazione e Riprocessamento attraverso i Movimenti Oculari). 

L’EMDR è un intervento molto specifico e focalizzato sul trauma, utile sia che l’evento sia avvenuto da poco (qualche settimana) o da molto (numerosi anni).

Alcuni elementi e concetti portanti di questo approccio (anche attraverso spiegazioni lievemente tecniche destinate a chi desidera comprendere almeno in parte il senso dell’utilizzo dell’EMDR), sono:

  • il trauma genera immagini, convinzioni su di noi e sul mondo, emozioni, stati fisici che possono mantenersi isolati, senza collegamenti o quasi con la globalità della nostra persona. Tali “memorie” rimangono, secondo gli studi neuroscientifici, confinati nel nostro cervello destro;
  • i Movimenti Oculari bilaterali alternati (attraverso una stimolazione bilaterale effettuata dal terapeuta durate le sedute) consentono un più efficace collegamento tra i due emisferi cerebrali (destro e sinistro), favorendo una graduale integrazione dell’evento traumatico. L’integrazione di fatto è il processo fondamentale alla base della cura del trauma e si fonda sulla riattivazione dei processi innati di guarigione della nostra mente;
  • il processo dell’EMDR avviene attraverso il controllo del paziente. Non si tratta di una tecnica ipnotica;
  • per chi è appassionato di scienza, sottolineo che si tratta di un metodo terapeutico che ha numerosissimi studi neuroscientifici a dimostrazione dell’efficacia.

Chi desiderasse approfondire, trova informazioni sul sito Italiano www.emdritalia.it e sul sito Americano www.emdr.com.

Pensate a una specie di indigestione, che avviene quando la nostra mente viene sovraccaricata da qualcosa di troppo stressante, di troppo faticoso da sostenere con le risorse disponibili in quel frangente dentro di noi. L’EMDR aiuta il processo di graduale digestione di quello che è rimasto indigerito.

Un trauma specifico: la morte di una persona affettivamente importante

donna che piange picasso

Ogni lutto ha un suo tempo di elaborazione e delle fasi attraverso cui una persona che lo sta vivendo passa (con tempi e modi caratteristici di ognuno di noi). A volte il lutto si blocca oppure si complica: le emozioni non riescono ad emergere, ad essere espresse, a volte prendono la via corporea diventando, ad esempio, disturbi somatici (mal di stomaco, mal di testa, stanchezza costante, etc.). Il modo, le circostanze in cui la morte della persona affettivamente importante è avvenuta hanno un peso assai significativo che può rendere più o meno traumatica la perdita, al di là del dolore per l’assenza della persona amata. Si può lavorare a livello psicoterapeutico sul lutto sia nelle prime settimane che a distanza di mesi o anni. La legge del tempo cronologico che scorre e non torna sovente non vale per i traumi irrisolti… Il punto in cui il processo naturale del lutto è rimasto bloccato può riguardare: il realizzare che è avvenuto (“Ancora non mi sembra vero…”, “È come vivere un incubo aspettando di risvegliarsi da un momento all’altro”, “Ogni mattina mi sveglio aspettandomi di trovarmelo accanto e poi realizzo dolorosamente che non è più qui”) il fronteggiare tutto quello che si è perso come sovraccarico ulteriore accanto alla dolorosa assenza della persona amata (“Con lei ho perso anche i luoghi familiari, la casa che avevamo costruito insieme negli anni, avendo dovuto traslocare”); la metabolizzazione degli aspetti di dipendenza o di ambivalenza e di conflitto nel rapporto con la persona morta (“Nell’ultimo periodo, con mio figlio avevo avuto diverse discussioni per alcune sue scelte… E adesso è troppo doloroso pensare a quei momenti di disaccordo”); la necessità di una trasformazione della propria identità (che era anche fondata sulla relazione e sulle identificazioni con il defunto), del rapporto con gli altri e delle proprie ipotesi sul mondo (“Non so più bene chi sono… Quello che facevamo insieme, fatto da sola è troppo strano e doloroso. Però erano cose che amavo fare ed erano parte di me”); il passaggio ad un nuovo investimento sul mondo (“Ho paura di instaurare una nuova relazione sentimentale perché ho il terrore che possa accadere di nuovo qualcosa alla persona che amo“; “Se penso di fare qualcosa che possa farmi stare bene, piacermi, mi sembra di tradire mio marito… L’idea di passare qualche bel momento anche se lui non c’è più, mi sembra ingiusto verso di lui…”).

Il lutto di un figlio e il lutto perinatale

Forse giunto a qualche confine estremo che la mia mente non concepisce, potrò chinarmi e posare questo grande fardello, e poi arretrare di un passo, non di più, un piccolo passo, un mondo intero: rinuncia. E ammissione: io sono qui, lui è là, e tra qui e là è il confine del mondo.

(David Grossman, Caduto fuori dal tempo)

… vorrei imparare a separare i ricordi dal dolore. O per lo meno una parte di essi, per quanto è possibile, perché non tutto il passato sia così intriso di dolore. In questo modo potrei ricordarti ancora di più, capisci? Non avrò paura ogni volta del bruciore dei ricordi. E devo accomiatarmi da te… allontanarmi solo quel tanto necessario perché il petto possa allargarsi in un respiro completo

(David Grossman. Caduto fuori dal tempo)

La morte di un figlio può essere considerato il trauma più doloroso che una persona, e una coppia, possano vivere. Essere supportati a livello psicologico in quel momento dell’esistenza può essere fondamentale. Il processo del lutto e del dolore ha un suo tempo fisiologico, indubbiamente, ma la possibilità di iniziare a elaborare la perdita può essere un’àncora quando tutto sembra perdere di senso, quando lo strazio invade il cuore.

Ecco alcuni temi centrali quando un figlio muore durante la gravidanza, il parto o poco dopo la sua nascita.

I progetti e le attese che hanno accompagnato la gravidanza sono stati smontati e non si sa che traccia rimarrà di essi: “Tutti i pensieri e i sogni fatti insieme… Chissà se domani ci saranno queste cose, se domani avremo un altro figlio e a lui potremo insegnare a nuotare come avevamo immaginato per Elisa…”.

Il terrore di dimenticare tutto del proprio figlio, di perdere ogni traccia di lui: “Mi tormenta il pensiero di dimenticarmi i tratti del suo viso, il calore del suo corpo, la sensazione del suo dito che stringe il mio”.

La paura di lasciar andare un po’ la sofferenza: “Se perdo quell’acuto dolore mi sembra di staccarmi da mia figlia”. “E ho paura di perdere anche i ricordi più angoscianti o dolorosi di lui in terapia intensiva. Ho così pochi momenti a cui aggrapparmi che non voglio che si attenuino, anche se sono immagini dolorose e angoscianti.” (Madre di un figlio che è morto due giorni dopo la nascita).

Il senso di ingiustizia profonda: “Ma cosa abbiamo fatto di male per meritarci questo?”.

La lotta interna tra la vicinanza emotiva e la distanza difensiva da un figlio che nasce con un rischio di vita e poi muore: “Il timore che avevo di scoppiare a piangere, vedendolo così pieno di tubi … Il timore di legarsi a lui e poi stare male…”. “Ho fatto fatica a prenderlo, ma ho pensato che non poteva non sentirsi almeno una volta e almeno in quel momento abbracciato da qualcuno… Avrà avuto paura sicuramente, doveva sentire che i suoi genitori erano lì con lui… E ora quel momento mi consola, mi fa sentire che almeno ho quell’istante in cui come ogni mamma ho potuto tenere in braccio mio figlio e non farlo sentire solo…”.

Il senso di colpa per non aver potuto/saputo proteggere il proprio bimbo dalla malattia e dalla morte: “Non sono stata capace di custodirlo al sicuro dentro di me per tutto il tempo necessario a poter vivere. Il mio corpo non l’ha protetto”.

La lacerazione quando dopo la morte di un figlio compare qualche segno di miglioramento, quando si riprende un po’ a vivere (la colpa del sopravvissuto nel senso più profondo perché un figlio sopravvive al proprio genitore, è nell’ordine delle cose…): “Mi sento in colpa se qualche volta, negli ultimi mesi, provo piacere per qualcosa, o se mi viene da sorridere stando in compagnia. Mi sembra di dimenticarmi di mio figlio, di tradirlo…” (dopo 8 mesi dalla morte del figlio).

La fatica di accettare la realtà della morte del figlio: accettare equivale a perderlo del tutto? “Il primo pensiero è che ci sia lui, poi ci penso e dico che mio figlio non è qui… Forse accettare che sia morto vuole dire che è morto davvero e non voglio accettarlo, voglio tenerlo con me e immaginare come sarebbe se fosse con me.”

La consapevolezza che un pezzo di se stessi è morto con il proprio figlio: “Con lui se ne è andato un pezzo di me, non sarò mai più la stessa persona…”. Nella mia esperienza clinica, lavorare con l’EMDR con un genitore o una coppia di genitori che stanno affrontando un evento così tragico, significa toccare gli aspetti più dolorosi attenuando pian piano, un pezzettino alla volta, l’acuta sofferenza, passando attraverso le diverse forme che il dolore può prendere, con i tempi e i modi di quella specifica persona e/o di quella particolare coppia. Nella coppia, quando muore un figlio, lo spazio di dialogo e di scambio può contrarsi, per il timore di trovarsi faccia a faccia con il dolore e la disperazione dell’altro; per la paura di travolgere l’altro con il proprio stesso dolore e la propria stessa disperazione. Diminuisce la capacità di sintonizzazione emotiva reciproca: si crea una corazza difensiva come misura di protezione dal trauma e dal dolore. Il partner infatti diviene un riattivatore delle memorie traumatiche da cui difendersi. Sulla perdita cade allora il silenzio. Lavorare con la coppia attraverso l’EMDR permette di proteggere la relazione, di conservare o sviluppare aspetti di empatia reciproca così importanti in particolare in una situazione così difficile.

I traumi ripetuti

Nella nostra infanzia e adolescenza, certi atteggiamenti e comportamenti genitoriali possono aver complicato più o meno fortemente il formarsi di un’identità solida e un’idea positiva di noi stessi. Ci sono certe convinzioni su di noi che se guardate un po’ a fondo ci possono portare a collegamenti con il modo in cui siamo stati trattati nel corso del nostro sviluppo.

Giusto per rendere l’idea di quello che intendo, possiamo essere abituati a dirci cose del tipo: “Io non conto mai per nessuno” se i nostri genitori erano così impegnati a litigare tra loro che a noi sembrava di essere trasparenti, “Non merito amore” se venivamo spesso picchiati, “Sono sbagliato” se la reazione più frequente ai nostri comportamenti era lo sguardo deluso di nostra madre, “Mi sento sempre inferiore agli altri” se nostro padre non ha mai espresso una frase di apprezzamento nei nostri riguardi e ci ha ripetutamente messo a confronto con le capacità di nostro fratello.

Si tratta in questi casi di episodi molteplici, ripetuti nelle settimane, nei mesi e negli anni che portano a radicare delle convinzioni su noi stessi che sono complesse da trasformare e che soprattutto ci portiamo nelle relazioni che instauriamo man mano nella vita, anche da adulti. Il punto critico è che sovente ci mettiamo in qualche modo (per le persone che scegliamo, per gli atteggiamenti che possiamo assumere) nelle condizioni di confermare ripetutamente quell’idea di noi stessi, aggravando così ancora di più la negatività di quello che pensiamo su di noi.

Il trauma da parto

Il momento del parto è una messa alla prova per la donna rispetto alle proprie energie e alle proprie risorse fisiche ed emotive. Può essere un momento vissuto con intensità, con fatica, con dolore ma diventare un evento comunque integrato nella vita di una donna. A volte tuttavia, per ragioni disparate, può viceversa assumere i tratti di un accadimento traumatico che lascia delle ferite aperte, delle tracce che generano angoscia nella donna (e non di rado anche nel suo compagno). Le narrazioni delle donne che hanno vissuto traumaticamente il parto parlano di: perdita di controllo sul proprio corpo (“L’ostetrica mi diceva ‘Ora spinga!’ ma io non ci riuscivo, non capivo quando dovevo spingere… e poi hanno dovuto usare la ventosa perché io non ce la facevo. Ed io ho sentito la violenza di quell’intervento”), perdita di controllo sulla propria mente (“Tutto procedeva bene, quando ad un certo punto si è bloccato qualcosa in me… Ho iniziato a dire che non ce l’avrei fatta, che non ero in grado… E alla fine hanno dovuto farmi il cesareo. E lo vivo come un fallimento ora…”), terrore che succeda qualcosa al proprio bimbo (“Continuano a risuonarmi nelle orecchie le parole del medico: ‘Non respira, non respira! Bisogna intervenire… E il corpo bluastro di mia figlia”), terrore di morire (“C’erano cinque medici chini su di me che concitati dicevano ‘Non si ferma… Continua a …’ E io avevo la sensazione che non sarei sopravvissuta, che non avrei neanche visto il volto di mio figlio”). Gli aspetti traumatici del parto possono tornare come flash back, o come incubi notturni; in più possono ostacolare la fase iniziale della costruzione di una relazione serena tra madre e bambino. Oppure possono riattivarsi in occasione di una nuova gravidanza, all’idea di affrontare un nuovo parto.

Nella mia attività clinica con le donne nel post partum (nel reparto ospedaliero puerperio/nido), ho potuto constatare molte volte come lavorare sul trauma da parto con l’EMDR, in modo più tempestivo possibile, significa per una neo-madre passare dalla presenza di ostacoli rispetto all’accudimento del proprio bambino al potenziamento delle risorse per potersi sintonizzare con i bisogni e i ritmi del proprio figlio. L’EMDR, sia per il suo essere uno strumento terapeutico di elezione rispetto al trauma che per la sua caratteristica attenzione anche per gli elementi corporei correlati fortemente ad eventi traumatici, è particolarmente indicato dove il corpo è così coinvolto come nel parto.

EMDR e allattamento

Siccome (come più sopra illustrato) l’EMDR permette di trasformare le convinzioni negative su noi stessi, quei pensieri che ci bloccano e non permettono di esprimere a fondo le nostre risorse e potenzialità, ho constatato la possibilità di un suo utilizzo proficuo nell’ambito delle difficoltà di allattamento. Per un allattamento vissuto in modo positivo, con una dose sufficiente di serenità e benessere, sono elementi basilari: la sintonizzazione affettiva, lo stabilirsi di un ritmo buono tra madre e neonato, la capacità di rispondere in modo sintono ai bisogni del proprio figlio. L’EMDR, nella mia pratica clinica con madri nel post partum, favorisce lo stabilirsi nella donna di quello stato mentale che facilita la sintonizzazione con il proprio piccolo, contribuendo a sciogliere i punti di blocco: “Mi sento inadeguata… Il mio seno è piccolo e io ho immaginato per tutta la gravidanza che non sia adatto ad allattare…”, “Il mio seno, con la montata, è diventato così gonfio e così duro che mi sono spaventata: non mi riconosco più e ho la sensazione che il mio corpo sia fuori controllo”, “La mia bimba non riesce ad attaccarsi subito e se penso di insistere per aiutarla a trovare il modo mi sembra di forzarla, di farle una violenza…”, “Non sono riuscita ad allattare il mio primo figlio e adesso mi sono messa in testa che andrà allo stesso modo e ho paura di provarci con la mia bimba”.

Il trauma nei bambini

Quando un bambino vive un trauma, la reazione del suo ambiente familiare ha un impatto assolutamente fondamentale nel proteggere il piccolo, facilitando il suo processo di guarigione naturale e aiutandolo a metabolizzare quanto accaduto, o viceversa rendendo ancora più complicato, doloroso e devastante quanto successo. Pertanto il lavoro con un bambino traumatizzato non può prescindere dal lavoro con il suo nucleo familiare, anch’esso in un modo o nell’altro traumatizzato.

Le manifestazioni di sintomi conseguenti ad un trauma nei bambini posso essere differenti rispetto agli adulti e più difficili a volte da comprendere, perché i bambini passano più rapidamente attraverso stati d’animo anche molto diversi. Un bambino che è traumatizzato dalla perdita di un genitore, può passare da un pianto disperato ad un momento di gioco in cui chi lo osserva può chiedersi, vedendolo ridere o essere assorto nella creazione del gioco, dove sia finita tutta l’emozione di qualche attimo prima.

Dalla loro parte i bambini hanno una grandissima capacità di rispondere ai traumi, innescando il processo di guarigione spontanea delle ferite della propria mente, nonché reagendo proficuamente agli interventi che riattivino quel processo quando qualcosa lo ha bloccato. L’EMDR nei bambini, effettuato con tecniche diverse a seconda dell’età e del livello di sviluppo verbale, dà un contributo assai efficace. L’EMDR viene integrato all’interno delle sedute, attraverso il gioco e il disegno, in modo differente a seconda dell’età.

Il lutto nei bambini

Siccome per noi adulti è difficile tollerare il pensiero che i nostri bambini possano soffrire, quando muore una persona affettivamente vicina, tendiamo a rifugiarci in convinzioni tipo “è troppo piccolo per capire quello che è accaduto”, “Si dimenticherà presto di lui/lei…”. I bambini in realtà capiscono molto più di quanto a volte noi immaginiamo ed hanno bisogno di sentire che è possibile parlare di quello che è successo, esprimere sofferenza e rabbia. Se non siamo noi a trasmettere loro che siamo in grado di ascoltare il loro dolore, di accettare le loro domande, anche quando sono così difficili pure per noi stessi, si ritroveranno ancora più soli e si sentiranno ancora più persi e insicuri.

Sovente i genitori mi chiedono cosa spiegare al loro bambino di quello che è avvenuto. Al di là delle specificità di ogni situazione di cui assolutamente tenere conto, il principio fondamentale è che, usando parole adatte all’età ed allo stile del loro bambino, di moltissimo si può parlare purché una madre e/o un padre riescano ad occuparsi di contenere le angosce del loro piccolo e rassicurarlo rispetto alle paure. Se sentono di non farcela, è importante che cerchino un aiuto professionale, perché se già è traumatico per un bambino perdere una persona importante, ulteriormente traumatico è non riuscire a trovare sicurezza e conforto in chi rimane.

Il lavoro con gli aspetti traumatici nei bambini molto piccoli

Quando accade un evento traumatico ad un bambino al di sotto dei tre anni è fondamentale lavorare con l’EMDR innanzitutto con i suoi genitori sugli effetti del trauma su di loro in prima persona. Solo riacquisendo i genitori una condizione mentale di sufficiente sicurezza, essi possono tornare ad essere per i loro figli quel contenitore emotivo di cui i bambini hanno vitale bisogno. Successivamente è possibile favorire l’elaborazione del trauma nel bimbo, attraverso sedute congiunte bambino/genitore, durante le quali l’EMDR viene utilizzato (nella forma di stimolazione tattile bilaterale: tapping) a partire da narrazioni degli eventi traumatici da parte dei genitori, effettuate in seduta e secondo particolari modalità che permettano il graduale recupero di un senso di sicurezza, conforto e tranquillità nel bambino.